Qualche mese fa scrivevo, circa la raccolta postuma Dare la vita di Michela Murgia, che l’autodeterminazione eletta a principio morale porta con sé splendori e miserie. Ciò non toglie che il processo di liberazione identitaria, vissuto nella forma antinormativa e playful della ri-significazione del proprio linguaggio (che innerva l’identità di ciascuno di noi), possa rivelarsi esaltante. Per capirlo con la forza dell’esempio, basta leggere Autobiogrammatica di Tommaso Giartosio. 

Dentro un dispositivo fototestuale che ricalca quello del taccuino d’appunti, composto in una tecnica mista di digressioni saggistiche, scampoli aneddotici, rubriche d’approfondimento, glossari e splendidi disegni a penna (di mano dell’autore), il libro gioca simultaneamente su due tavoli, quello del racconto di formazione e un altro di catalogo aperto: parole, grammatiche, lingue, storie incontrate in un percorso di alcuni decenni. Più precisamente: dell’autobiografia, prima parte del composto neologismo del titolo, si riprende la colonna portante del racconto di sé, ma spezzata e ricomposta in un ordine inconsueto, che ci fa andare avanti e indietro nell’esistenza dell’autore da prima della sua nascita alle soglie della giovinezza (venti-ventidue anni circa). Almeno dall’O di Roma (2012), il modello di Giartosio è il romanzo umoristico settecentesco di Laurence Sterne, con i suoi giri in tondo, le digressioni, le brusche accelerate e le pause che, da cornice che erano nel Settecento, finiscono per mangiarsi il centro del quadro e sostituirsi a esso. 

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Nelle due sezioni asimmetriche del libro (Presa di parola di circa cinquanta pagine, Abbecedario il resto), prevale l’impulso a rileggere la propria storia attraverso la ricostruzione del linguaggio personale, accostato a una «vasta ragnatela sospesa nel buio». Ma proprio

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