La sestina finalista allo Strega di quest’anno è stata a volte interpretata come un ritorno salutare alla fiction, dopo due o tre anni in cui ad affermarsi nei premi principali erano stati soprattutto i cosiddetti “romanzi-verità”: tra biografia e autobiografia, testimonianza e saggio. Mi pare che le cose stiano un po’ diversamente; se è vero che lo Strega fornisce sempre indicazioni interessanti sull’assetto di una parte della nostra editoria di narrativa, quest’anno ci dice che una certa quota di vita vera, e di autoriflessività, fa ormai stabilmente parte dell’offerta di quelli che (con una tautologia solo apparente) ci abituiamo a chiamare “romanzi letterari”. Si leggano al proposito Invernale di Dario Voltolini (biografia di un padre, con qualche sintonia con La traversata notturna di Canobbio finalista lo scorso anno), e Autobiogrammatica di Tommaso Giartosio, originale tentativo di una metascrittura del Sé.  E si consideri come Chiara Valerio e Donatella Di Pietrantonio proiettino parecchio della propria figura di scrittrici nelle protagoniste dei loro romanzi, che sono certo totalmente finzionali – anzi appoggiati a elementi di genere – ma pure esibiscono una forte identità, una loro inconfondibile “presenza”.

E tuttavia l’edizione 2024 risulta rilevante per un altro motivo ancora: mi pare la più bilanciata, la più attentamente costruita, la più istituzionale da tanto tempo a questa parte; direi forse la più presidenziale, la più “mattarelliana” nel soppesare con tatto e uso di mondo le esigenze della cultura e dell’industria. Non solo, come dicevamo, le giuste proporzioni di fiction non fiction; non solo, con taglio bipartisan, le annose questioni di genere (tre scrittrici, tre scrittori); né soltanto gli equilibri editoriali (tre grandi marchi, due medio-grandi, uno medio-piccolo in quota “indipendente”). C’è pure – ed è quello che più ci interessa – uno studiato equilibrio di letterarietà e intrattenimento, non solo in quasi tutti i singoli romanzi finalisti, ma soprattutto nella sestina nel suo complesso. Questa meravigliosa simmetria ci spinge a leggere i libri finalisti in modo altrettanto simmetrico, ossia a coppie contrastive: cercando quell’equilibrio degli opposti che è la vera scommessa culturale, la vera acrobazia estetica tentata dallo Strega in questi ultimi vent’anni.

***

Cominciamo allora dalle due favorite, Valerio e Di Pietrantonio: se quest’ultima ha scritto il romanzo che – in base ai suoi precedenti – potevamo immaginare avrebbe scritto, la prima ha scelto una via più sorprendente. Innanzitutto perché Chi dice e chi tace (Sellerio) pare fatto di due libri, uno dentro l’altro. Quello per così dire esterno coincide col racconto vero e proprio, sostanzialmente un giallo affabile, agile, di lettura facile e gradevole. S’inizia con la morte misteriosa di Vittoria, provetta nuotatrice annegata in una vasca da bagno nel paesino balneare in cui è andata a vivere da tanti anni. Presto però l’oggetto dell’indagine – diretta dalla narratrice, amica della morta, che in quell’umile borgo invece è nata e cresciuta – diventa l’identità stessa di Vittoria, la cui vita celebra una vicenda di dedizione, sostegno, educazione sentimentale e intellettuale tra donne. Ed è proprio indagando su Vittoria che la protagonista, professionista affermata sposata con due figlie, prende coscienza delle sfumature ambigue della propria sessualità; nel segno di Vittoria si celebra il trionfo della carismatica leader di una piccola comunità di affetti che ai vincoli di sangue e di legge ha saputo sempre opporre scelte di testa e di cuore. E in effetti s’intravede, nel personaggio di Vittoria, il calco di scrittrici che hanno contato molto per l’autrice: gioca bene a poker come Patrizia Cavalli, possiede il blasone sociale e culturale di Fleur Jaeggy, fonda comunità come Michela Murgia («Vittoria è una che si prende cura, non che si fa curare»). 

E chissà che il titolo, “Chi dice e chi tace”, non alluda, oltre che alle voci e ai segreti del paese, a questo livello più nascosto, implicito e forse inconscio in cui la prima persona un po’ si espone e un po’ si nasconde?

Mentre la trama “gialla” viene amministrata con perizia (le cose si rivelano più complicate di quel che sembravano), l’apologo femminista si sottrae all’imprevedibilità (le donne sono meglio degli uomini, o almeno di quelli eteronormati); più interessante dell’una e dell’altro è però l’ombra di un secondo romanzo, interno e potenziale, fatto di spunti accennati, e di molto non detto. L’attrazione della narratrice per Vittoria, ad esempio, si dice esplicitamente legata alla sua personalità “irresistibile”, alla sua libertà, alla sua sensualità – ma in un paio di circostanze si capisce che in gran parte è anche sociale («Vittoria era una signora (…); non è una cosa che ha a che fare con la ricchezza»). Richiamo del salto di classe, ricerca di protezione, riconoscimento e cooptazione da parte di figure autorevoli – tratti molto romanzeschi, tutti da esplorare, tutti inesplorati, perché la narratrice si sporge volentieri sul mistero degli altri, ma si ritrae puntualmente dal mistero del sé. Cosa vede, e cosa cerca veramente in Vittoria? E se le sue stesse proiezioni lesbiche fossero una maschera – un modo per dire e insieme per tacere altri desideri, bisogni più profondi? E chissà che il titolo, Chi dice e chi tace, non alluda, oltre che alle voci e ai segreti del paese, a questo livello più nascosto, implicito e forse inconscio in cui la prima persona un po’ si espone e un po’ si nasconde?

Anche L’età fragile (Einaudi) racconta la storia di due donne (anzi, di una doppia coppia), ma per Di Pietrantonio lo schema binario è da tempo la regola. Nell’Arminuta c’erano due sorellastre bambine, e le rispettive madri, nella cornice del ritorno di una delle piccole all’Abruzzo rurale d’origine; in Borgo Sud quelle stesse sorelle si ritrovano anni dopo, nel momento in cui la più emancipata delle due soccorre l’altra, ripiombando a sua volta in una periferia tesa e violenta. Nell’Età fragile si sdoppiano anche le trame: in quella al presente una donna separata da poco deve ricostruire un rapporto con la giovane figlia, che ha abbandonato l’università a Milano per tornare in Abruzzo nei mesi del lockdown; ma trent’anni prima quella stessa madre, allora ventenne, vedeva spezzarsi il rapporto con la sua migliore amica, gravemente ferita nel corso di un’aggressione in montagna che era costata la vita ad altre due ragazze. Come si vede, torna ossessivamente il rapporto, gravido di sensi di colpa, tra due donne (amiche o sorelle, madri e figlie); e torna un contrasto di civiltà che provoca a sua volta colpevolezza – da una parte un Abruzzo moderno, provinciale, inautentico e insipido; dall’altro un Abruzzo antico, nascosto, aspro, inospitale (e oscuramente attraente). Repertorio consolidato, in pericoloso equilibrio tra archetipi e stereotipi, anche letterari (all’ombra di amiche più o meno geniali); repertorio scarno, come la lingua che lo anima, pronta a concedersi qualche sfumatura regionale nel lessico e nella sintassi, ma implacabile nel chiudersi in una paratassi incolore. Meglio comunque l’atonia del festoso e festivo lieto fine che nell’Età fragile celebra la riparazione di tutte le ferite attraverso un rituale che unisce le generazioni nel luogo della violenza più arcaica e patriarcale: il vuoto d’amore viene fisicamente colmato, genitori e figli si stringono insieme, le amiche si ritrovano, «cade nel cielo sopra il Dente del Lupo l’ultima stella dell’estate». 

Forse per Di Pietrantonio è arrivato il momento di scegliere: restare la scrittrice efficace, sicura e perbene che certamente è – consacrata dal pubblico e dai premi letterari – oppure sottrarre il suo indubbio talento narrativo alla gabbia delle simmetrie, lasciarlo libero di indagare le sue (e le nostre) contraddizioni

Nel bene e nel male, L’età fragile è come si vede un libro di conferme. Conferma che Di Pietrantonio sa raccontare, ma anche che (alla terza variazione sul tema) le storie che racconta sono proprio come ci immaginiamo che siano, pronte per diventare un film o una serie tv. I giovani fragili e ribelli, ma innocenti e puri («Tutto quel male arrivato dove io e Doralice da bambine ci eravamo nascoste e cercate, con le labbra sporche di fragole»); i maschi sessisti, possessivi, padronali, violenti (ma può parzialmente riscattarli l’adesione ai valori contadini); eccetera eccetera. Peccato, perché le pagine belle del libro sono quelle in cui la narratrice lascia parlare la sua ambivalenza: quando ricorda la figlia a Milano, sola e ferita per strada, e si chiede perché non l’ha raggiunta e aiutata, «ancora non me lo spiego»; quando ammette che è sollevata, e non rattristata, dalla sua improvvisa partenza («Sono libera da lei. Lo penso e subito mi vergogno. (…) Mi pesa, la amo»). Forse per Di Pietrantonio è arrivato il momento di scegliere: restare la scrittrice efficace, sicura e perbene che certamente è – consacrata dal pubblico e dai premi letterari – oppure sottrarre il suo indubbio talento narrativo alla gabbia delle simmetrie, lasciarlo libero di indagare le sue (e le nostre) contraddizioni, spingere più in là la sua letteratura.

***

premio strega 2024,Gianluigi simonetti,premio strega,di pietrantonio,di paolo,voltolini,giartosio,chiara valerio,Raffaella romagnolo,favoriti premio strega,cinquina premio strega,sestina premio strega,finalisti premio strega

Romanzo senza umani (Feltrinelli) di Paolo di Paolo e Autobiogrammatica (minimum fax) di Tommaso Giartosio sono in sestina i libri più esplicitamente “letterari”, quelli che chiedono al lettore più concentrazione e impegno. Ma lo sono in modo assai diverso.

In Romanzo senza umani

Questo contenuto è visibile ai soli iscritti

Snaporaz è una rivista indipendente che retribuisce i suoi collaboratori. Per esistere ha bisogno del tuo contributo.

Accedi per visualizzare l'articolo o sottoscrivi un piano Snaporaz.