La più feroce stroncatura che abbia ricevuto venne da Michela Murgia, alla fine del 2016. A gennaio avevo pubblicato Una sostanza sottile, il mio nono e (spero) ultimo romanzo. Non era stato trattato male. Quando mi dissero di Murgia rimasi sorpreso, prima di tutto per il tempo che era passato dall’uscita del libro, quasi un anno. Più sorpreso fui quando ebbi modo di ascoltarla, in una registrazione. Si era espressa nel corso di una rubrica televisiva, adibita allo scopo: mettere in luce quanto di non buono si veniva pubblicando. Il conduttore, vidi, sogghignava: ma da tempo non mi era simpatico. Decenni prima avevo conosciuto la moglie, creatura deliziosa e gentile: mi ripetevo come incongruenti siano spesso i matrimoni.

Anche Murgia. Conoscevo anche lei. Ma l’avevo solo sfiorata, quando a Mondello le venne conferito il premio per il suo più famoso romanzo, Accabadora. Per lei non avevo nessun sentimento, l’avevo dimenticata. Qual è il succo di quanto disse in televisione? Disse che Una sostanza sottile era un libro incomprensibile, probabilmente sottintendeva fosse un esercizio di vanità. Il peggio venne alla fine. Con una punta di dispetto o, chissà, di acrimonia consigliò all’editore Einaudi (il suo stesso editore) di non pubblicare mai più roba simile. Mi chiesi, sconsolato, se fosse un ricatto: o lui o io.

Pochi giorni dopo (siamo in dicembre) ero in treno, si andava da Milano a Roma. All’improvviso la vidi passare, veniva dalla carrozza alle mie spalle. Con ogni probabilità si dirigeva al bagno – ed era così. La vidi entrare. Subito mi chiesi: la devo fermare? mi va di parlare con lei? Non avevo che pochi minuti. Quando tornò indietro non ebbi il coraggio. Lo trovai subito dopo. Perché no? che paura o che imbarazzo si può mai avere? Di scatto mi alzai, andai verso la sua carrozza e là, in piedi, di fronte a lei seduta, mi fermai e per qualche secondo non parlai. Mi guardò, naturalmente, in modo interrogativo. Non c’era ragione per cui dovesse riconoscermi. Così, le dissi chi ero e subito aggiunsi che non avevo alcuna intenzione bellicosa. Il sedile davanti a quello da lei occupato non consentiva di sedermi. Le chiesi se sarebbe stata così gentile da alzarsi, mi avrebbe fatto piacere parlarle. Non pronuncerò una sola parola, le dissi, su quanto da lei dichiarato in quella trasmissione, tanto meno sul mio libro o su qualcosa a sua firma. Però, ripetei, mi farebbe davvero piacere scambiare due parole con lei. 

Murgia, rassicurata (o così tendo a credere), si alzò, venne e si sedette di fronte a me. Per arrivare a Roma mancavano ancora due ore. Parlammo ininterrottamente, mai o poco di letteratura; le chiesi della sua vita; lei mi chiese della mia; in certi momenti la guardai come un uomo guarda una donna: non sempre gli uomini guardano le donne con desiderio ma tante domande se le fanno, o se le possono fare. Nulla di esplicito venne tra noi detto sulla nostra vita sentimentale, o sessuale: ma il suo corpo parlava e, immagino, anche il mio qualcosa avrà detto. Parlavamo e pensavamo. Pensavamo a ciò che non era il caso di sapere. Avvicinandoci a Roma la nostra conversazione divenne amichevole, quasi affettuosa, e quando il treno si fermò e lei si alzò per tornare ai suoi bagagli mi chiese di farci un selfie. Fu l’unico scarto dal tono che fino a quel momento avevamo conservato. Le dissi: «No, un selfie no». Non so cosa abbia pensato, ma il mio rifiuto sarebbe stato identico con qualunque altra persona. Non era diretto verso di lei; o verso di noi e verso la nostra conoscenza. Lei allora mi chiese di fotografare almeno le nostre mani che si stringevano, e si salutavano: uno scatto cui non mi opposi.

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