Georgi Gospodinov mi dà appuntamento al Timeless Café, un locale appartato e silenzioso in un cortile interno, a pochi passi dall’Università di Sofia. Scherziamo su questo nome, che sembra uscito direttamente da Cronorifugio – il suo ultimo, fortunatissimo romanzo, vincitore dell’International Booker Prize nel 2023 e pubblicato in Italia, come tutti gli altri, da Voland.

Gospodinov è appena rientrato da Parigi, dov’era invitato per un convegno e per promuovere il suo libro, tradotto in francese come Le pays du passé. Un titolo che non lo convince. «Il titolo italiano, di Giuseppe Dell’Agata, è quello che mi piace di più», mi confessa. Classe ’68, laureato in filologia, Gospodinov inizia la sua carriera negli anni Novanta come poeta, ma raggiunge il successo internazionale con Romanzo naturale, pubblicato nel 1999. Da quel momento, l’ascesa è irresistibile: titoli come Fisica della malinconia (2011), E tutto divenne luna (2013), Tutti i nostri corpi (2018) fanno conoscere in Europa la prosa particolarissima di Gospodinov: veloce, ironica, impastata di considerazioni storiche e filosofiche, ossessionata dalle liste, dal banale e sublime quotidiano. Gospodinov, narratore versatile, capace di attraversare tutti i generi (poesia, romanzo, racconto breve, drammaturgia, sceneggiatura e saggistica), è oggi tra i più importanti scrittori europei.

I.G.: Cosa ti piace di Sofia? Ti senti più legato a questa città o a Jambol, dove sei nato?

G.G.: Ogni città, per me, è fatta dalle sue storie, dai suoi libri, dalle sue leggende. Perciò mi piacciono tante Sofia differenti. C’è la Sofia di inizio secolo, coi poeti famosi che la abitavano, come Pejo Yavorov o Penčo Slavejkov. Ho anche lavorato nella casa di Yavorov, che è uno dei nostri più importanti poeti romantici. Oltre a questa, amo la Sofia degli anni Trenta, quella degli anni Sessanta… Ho passato più tempo qui che a Jambol. Sono venuto a Sofia per studiare a 20 anni, e tutte le cose importanti della mia vita – l’89, la caduta del Muro, le proteste per strada – sono successe qui. Forse è questa la mia Sofia preferita, la Sofia degli anni Novanta. La cosa che amo di più di questa città è che è a misura d’uomo. Amo le stradine attorno ai Cinque Piccoli Angoli, amo i cortili interni di Sofia, come questo. Amo i suoi giardini. È una città molto verde.

I.G.: In uno dei giardini più belli di Sofia, il Gradska Gradina, una volta sorgeva il Mausoleo di Georgi Dimitrov, il primo ministro della Repubblica Popolare di Bulgaria. È stato abbattuto nel 1999 e adesso, in quel parco, non c’è neanche una targa commemorativa, non un ricordo… Che ne pensi?

G.G.: È stata una stupidaggine. Una volta ho chiesto a un tassista di portarmi alla Galleria Nazionale, che si trova esattamente di fronte alla zona dell’ex Mausoleo. Mi sono reso conto che non sapeva dove fosse. Allora gli ho detto: “Portami al Mausoleo”. Ha capito subito. Anche se è stato abbattuto più di 20 anni fa, il Mausoleo esiste ancora nella memoria delle persone. Io stesso ho il ricordo di quando a scuola ci portarono a vederlo per la prima volta. Credo che il Mausoleo avrebbe potuto essere usato in un altro modo, come un luogo di memoria. Adesso si cerca un buon posto per il Museo del Comunismo, per il Museo del Terrore. Per tanti anni ho provato, con un gruppo di amici, a realizzare un museo del genere. Avevamo un progetto di 50 pagine, ma siamo ancora al punto di partenza. Avremmo bisogno di un appoggio politico, ma evidentemente non siamo ancora pronti per un museo del genere. Così ho scritto un pezzo per un giornale dove dicevo che forse è l’assenza stessa di questo museo a essere il vero museo, l’unico che abbiamo. Ho detto spesso, nei miei libri, che le cose che non sono mai accadute sono più importanti di quelle accadute davvero. Questa memoria mai accaduta, questo museo mai successo, sono molto importanti. Sono il segno di qualcosa.

I.G.: Anche in Italia, qualche anno fa, ci fu una grande discussione sull’opportunità o meno di avere un Museo del Fascismo…

G.G.: Quando manca il lavoro della memoria, sorgono sempre problemi. Oggi il vero problema è questo: come facciamo a mantenere la memoria giusta di qualcosa? La questione è cruciale. Il populismo usa la memoria a fini propagandistici, ma quella è una falsa memoria. Adesso è troppo tardi. Avremmo dovuto far qualcosa già alla fine degli anni Novanta. Scrissi qualche articolo su questo tema, allora. Con alcuni amici realizzammo un progetto, intitolato Ho vissuto il socialismo. 171 storie personali. E poi un altro libro, L’inventario del socialismo. Era il 2006, credo. Ricordo le reazioni di qualche politologo, di qualche storico. Dicevano che era troppo presto per parlarne, che dovevano guardare al futuro, che non c’era bisogno di parlare del passato. Una reazione comprensibile, ma sbagliata. È stato un grande errore, e oggi assistiamo alle sue conseguenze.

I.G.: Ti stai riferendo alle recenti elezioni politiche in Bulgaria. Sei preoccupato per i risultati delle votazioni?

G.G.: Certo. Ci sono alcuni partiti, come il filo-russo Velichie [“Grandezza” N.d.R], formato di recente, che sembrano tratti pari pari da Cronorifugio. Nel libro racconto di un partito reazionario di esaltati che si chiamano gli “Eroi”. Fanno rievocazioni militari, hanno un arsenale di armi, si esercitano a combattere… una sorta di partito paramilitare. Sono quelli che chiamo “spacciatori di passato”. Sono molto pericolosi.

I.G.: Anche Vazrazhdane [“Rinascita” N.d.R.], un partito ultra-nazionalista e anti-occidentale, ha avuto un discreto successo. Com’è possibile che così tante persone, in Bulgaria, provino nostalgia per un periodo del passato così pieno di dolore e miseria, come quello socialista?

G.G.: È una bella domanda filosofica… Come dico nei miei libri, il nazionalismo germoglia e si nutre del dolore del passato. Ci potremmo aspettare che le persone vogliano ricordare i momenti in cui una nazione era felice, potente; e invece ciò che rende forte i nazionalisti, ciò di cui amano parlare, sono i periodi infelici. I momenti storici in cui, come gli piace dire, “tutti erano contro di noi”. Prendi Putin: “Tutti sono contro la Russia, dobbiamo reagire, fare qualcosa”… Ecco come funziona il nazionalismo. Trae nutrimento dai periodi storici oscuri, cerca sempre un nemico. Nella storia della Bulgaria uno degli episodi più importanti è la fallita Rivolta di Aprile del 1876 contro l’Impero Ottomano: un completo insuccesso, e non soltanto perché c’erano traditori fra i rivoltosi. Questo episodio è un trauma per la Bulgaria. Ci sono due modi per far fronte ai periodi traumatici: uno è discuterli a dovere, rifletterci sopra. L’altro è fare rievocazioni militari e cercare i nemici responsabili del fallimento. Quest’ultimo è il metodo del nazionalismo.

I.G.: Mi viene in mente il titolo di un bel libro di Svetlana Alexievič, Tempo di seconda mano. Stiamo vivendo tempi tragici che avevamo già vissuto. Ho letto da poco un tuo articolo dove citavi Milan Kundera: dicevi che il centro dell’Europa si trova oggi ad Est.

G.G.: Sì. Il centro dell’Europa, per me, segue sempre il centro del dolore. Il centro del sanguinamento. Negli ultimi trent’anni, ma soprattutto adesso, con la guerra in Ucraina, il centro è a Est. È un argomento molto delicato per noi. Per la Polonia specialmente. Tutto è iniziato con Czesław Miłosz, negli anni Cinquanta, grazie al suo saggio La mente prigioniera, nel quale cerca di spiegare come l’Est sia stato abbandonato dall’Occidente, che ha lasciato che finisse alla Russia sovietica. E dopo Miłosz, Milan Kundera ha scritto un saggio importante, L’Occidente prigioniero. Ma anche il polacco Andrzej Stasiuk e Yurii Andrukhovych, uno scrittore ucraino, hanno scritto di questo, alla fine degli anni Ottanta. Oggi il discorso continua: qualcosa di molto importante, per l’Europa intera, sta avvenendo qui.

I.G.: Recentemente, in un convegno francese, sei stato invitato assieme a Olga Tokarczuk e Mircea Cărtărescu. C’è una nuova attenzione verso gli autori dell’Est Europa, secondo te? E perché?

G.G.: Non mi piace molto questa etichetta, devo essere sincero. Forse poteva funzionare negli anni Novanta. Ricordo che un’importante casa editrice tedesca pubblicava libri con questa etichetta: “Letteratura dell’Est Europa”. Dovevi leggere quei libri per sapere cos’erano quei paesi, cos’era il comunismo… ma pian piano, pur con tutte le buone intenzioni, è diventato un ghetto. L’idea stessa che, se vieni da determinati paesi, devi per forza raccontare un certo tipo di storie, ecco, non ci credo. 

Ricordo una volta, durante il mio primo reading a Berlino. Era appena uscito il mio primo romanzo, Romanzo naturale. Parlava di una coppia che divorzia durante gli anni Novanta, c’era nelle sue pagine questa impressione che tutto stesse cadendo a pezzi. Qualcuno dal pubblico mi fa: “Non mi aspettavo che il libro parlasse di questi temi”. E perché? Solo perché vengo dai Balcani dovrei raccontare storie dell’Impero Ottomano, di risse e di coltelli? Gli ho risposto che anche in Bulgaria ci si innamora, si divorzia… e in qualche caso moriamo addirittura di morte naturale! Sì, gli stereotipi verso la letteratura dell’Est erano e sono molto forti. Abbiamo scherzato con Olga e Mircea, durante il convegno. Esiste una specie di gerarchia per cui all’inizio, mettiamo, sei uno scrittore bulgaro. Poi, col successo, diventi uno scrittore balcanico, quindi uno scrittore dell’Est Europa. Alla fine, se sei veramente famoso, sei semplicemente uno scrittore.

I.G.: Tu cosa ti senti?

G.G.: Forse sono ancora uno scrittore dell’Est Europa, non ho ancora salito l’ultimo gradino. Ma ti dirò, c’è qualcosa di ancor peggio degli stereotipi, ed è l’assenza degli stereotipi. Quando la gente non ha alcun tipo di interesse per te, quando gli stereotipi non funzionano semplicemente perché non ci sono. Non è stato facile essere uno scrittore bulgaro, all’inizio. Non è come essere uno scrittore rumeno. C’è più curiosità verso la Romania, verso la sua storia recente. La tradizione letteraria rumena è molto forte, soprattutto all’estero: Ionesco, Cioran, Eliade. Forse solo adesso, dopo il Booker Prize, l’interesse per la letteratura bulgara sta crescendo… 

I.G.: Quali autori bulgari contemporanei ci consiglieresti?

G.G.: Non sono sicuro di poter fare nomi di contemporanei… ma abbiamo qualche buon autore, non più in vita, degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, che dovrebbe essere tradotto se si vuole avere un quadro più ampio e preciso della letteratura bulgara. Scrittori come Jordan Radičkov, che è già stato pubblicato in Italia con buon successo, o Vera Mutafchieva. Ha scritto un romanzo storico, Il caso di Cem, che è stato appena pubblicato in inglese con grande successo, tradotto dalla mia amica Angela Rodel. Altri autori di alto livello sono Ivailo Petrov e Viktor Paskov. E Georgi Markov, uno scrittore che è stato ucciso durante la Guerra Fredda, nel 1979, a Londra. È il famoso caso “dell’ombrello bulgaro”: Markov è stato ucciso dai servizi segreti bulgari, in collaborazione col KGB, con un ombrello dalla punta avvelenata. Sarebbe molto importante leggere questi cinque autori, per poi passare a quelli più giovani. Perché è successo così: gli autori bulgari contemporanei hanno aperto le porte per questi grandi autori, che sono stati dimenticati.

I.G.: Hai detto che avevi in mente un progetto per un museo. Qualche giorno fa, a Istanbul, ho visitato il Museo dell’Innocenza di Orhan Pamuk. Un museo molto particolare, proustiano…

G.G.: Ma che bello! Scusami se ti interrompo, ma questa te la devo raccontare. Ho incontrato Orhan Pamuk proprio nel periodo in cui stava preparando il suo museo. Siamo andati a cena e gli ho mostrato L’inventario del socialismo, che ha apprezzato molto. È un libriccino zeppo di oggetti quotidiani del tempo del socialismo. Cose della nostra infanzia, come gomme da masticare, pacchetti di sigarette. Oggetti ideologici, oppure del tempo libero: giochi da tavolo, confezioni di cioccolato… Durante il socialismo non esisteva la pubblicità. Quando vivi in un deficit perenne, non ne hai bisogno. Hai un solo tipo di cioccolato, e non ha un nome, si chiama semplicemente: “cioccolato”. Pamuk mi ha confessato che tutto questo gli ricordava molto la sua infanzia. Anche se la Turchia e la Bulgaria erano al tempo distantissime – per noi era un Paese capitalista, quindi il confine era davvero grande e ideologico – credo che i nostri anni Cinquanta e Sessanta somiglino molto ai loro. Vivere in povertà crea memorie comuni. Per questo gli oggetti bulgari raccolti nel libro sono stati per Pamuk come tante “madeleine”. Come per me gli oggetti del suo museo. Ciò che mi interessa di più, quello che cerco di raccontare nei miei libri sono proprio queste piccole cose. Il sublime e il quotidiano sono connessi, ogni oggetto è pieno di memoria. Questo è il legame che unisce il nostro Inventario e il suo Museo dell’Innocenza. Anche se credo che né il libro né il museo siano davvero innocenti. Perché il passato non è mai innocente. Le piccole cose sono piene di storia… 

Sai, era un grande problema per noi: come parlare del nostro passato comunista? Non è mica tanto facile. Non puoi semplicemente andare dalle persone e chiedere: “Dimmi come hai vissuto il comunismo”. È una domanda troppo grande. Ma se parti dalle piccole cose, e chiedi “Che oggetti ti ricordi? Quali sono gli odori della tua infanzia?”, beh, è un’altra faccenda. Per me sono stati l’odore dell’asfalto, dei gas delle industrie. E i sapori? Se parti dalle piccole impressioni, ti rendi conto che intere generazioni hanno palati comuni. I sapori erano gli stessi, perché tutti avevamo gli stessi prodotti del deficit. E un’altra cosa molto importante: quando parlo di deficit non parlo solo della mancanza di cose materiali, come cioccolato, automobili o frigoriferi; parlo anche del deficit dell’erotismo, della libertà. Il grande problema del comunismo era che non sapeva che fare delle persone dopo le cinque di pomeriggio, quando finiva l’orario di lavoro…

I.G.: Mi vengono in mente le parole di Aleksandr Blok, quando diceva: “il marxismo mi dà un senso di freddo”.

G.G.: Sì, è questa freddezza, questa mancanza di gusto… Un poeta polacco, Zbigniew Herbert, ha scritto una poesia sul buon gusto e sulla sua importanza, s’intitola Potenza del gusto. A volte si diventa coraggiosi non tanto per un’idea astratta, o per il concetto di libertà; spesso la rivolta nasce per una semplice questione di gusto. Bisogna reagire alla mancanza di buon gusto. Danilo Kiš, un altro autore balcanico, ha detto che bisogna combattere contro il kitsch dei nazionalismi, rendersi conto della loro mancanza di gusto – sì, è proprio una questione di gusto. Riconoscere il kitsch e resistergli.

I.G.: Ti ricordi la tua prima volta all’estero?

G.G.: Certo. Fu a Venezia, avevo 21 anni. Quindi troppo tardi… Mia figlia aveva un anno la prima volta che è stata a Berlino… Ma se penso ai miei genitori, o ai miei nonni, che non sono mai usciti dalla Bulgaria, beh, non è stato troppo tardi! Grazie a un saggio avevo vinto un concorso scolastico. Il premio erano tre giorni a Venezia. È stato fantastico, non ho mai chiuso occhio. Ti ricordo che noi non potevamo viaggiare liberamente all’estero. Ho scritto un saggio su questo, si chiama Il mondo negato – spero che i miei saggi vengano tradotti presto in italiano… In questo pezzo scrivo di come, quando qualcuno da questa parte d’Europa riusciva a visitare un Paese straniero, era un viaggiare diverso, particolare. Non era una semplice visita turistica. Perché io viaggiavo anche per chi era rimasto dietro di me, per chi non poteva andare via. Per i miei nonni, per i miei genitori, per i miei amici.

I.G.: Avevi una responsabilità del viaggio.

G.G.: Sì, sentivi che dovevi vedere le cose non soltanto con gli occhi. È un sentimento molto particolare: cosa direbbe adesso mia madre? Mio padre? I miei nonni? Cosa raccontargli? Mi ricordo una volta, chiamavo mio padre da Parigi, dagli Champs-Élysées. Era la mia seconda volta all’estero. E al telefono gli dico: “Papà, ce l’ho fatta, sono agli Champs-Élysées… Sai, mi aspettavo qualcosa di più, non sono grandi come immaginavo”. Lui mi risponde: “Ma come puoi dire una cosa del genere! Sono gli Champs-Élysées!”. In un certo senso, credo che quella generazione abbia visto posti più belli di me. Proprio perché li inventava.

I.G.: Quali autori italiani sono stati importanti per la tua formazione?

G.G.: Una volta leggevo molto di più… Sono un filologo, quindi forse dovrei iniziare dal Decameron. Quello che ricordo di più di questo libro è l’idea della narrazione come cura, come antidoto alla peste. Ha molto in comune con Le mille e una notte, con Shahrazād… L’idea di poter sopravvivere raccontando storie, di guadagnare un giorno in più di vita, è stata molto importante durante la mia infanzia. I miei nonni erano grandi narratori, come mio padre. E l’idea di sopravvivere semplicemente restando seduti a raccontarsi storie, era bellissima. Avevo paura di morire. Ho vissuto coi miei nonni per i primi sette anni della mia vita, e i nonni parlavano spessissimo della morte. Avevano addirittura già scelto e preparato i vestiti per il loro funerale. Era un argomento quotidiano. Ma forse la narrazione mi piaceva anche perché ti poteva portare in altri mondi. Era un antidoto alla nostra impossibilità di viaggiare. Sapevo già tutto di Venezia e di Parigi dai libri, molto prima di averle visitate. Le amavo perché ne avevo letto. Poi, naturalmente, dopo il Decameron ho letto molta letteratura italiana contemporanea. Italo Calvino… In Bulgaria era molto popolare Alberto Moravia, La ciociara. E poi altri: Alessandro Baricco, Paolo Giordano, Nadia Terranova, Andrea Bajani.

I.G.: Scegli cinque libri che ti hanno cambiato la vita.

G.G.: Il primo l’ho letto da bambino, anche se non era un libro per l’infanzia, ma un saggio storico sulla Rivolta di Aprile, di Zahariy Stoyanov: Note sulle insurrezioni bulgare. È un libro pieno di ironia. Ha un modo semplice e quotidiano di descrivere la Rivolta, che ho davvero amato. Tutti gli altri libri sull’argomento erano pomposi, pieni di grandezza e retorica; qui potevi leggere la storia di persone normali, goffe, che non sapevano come usare i fucili. Poi Andersen. Le favole di Andersen sono state importantissime per me, da piccolo. Credo di aver iniziato a inventare storie per quest’idea che tutto sia vivo, animato. Quando leggi Andersen puoi trovare la storia di qualsiasi cosa, di questo cappello, di una pianta… La prima storia che ho inventato parlava della foglia di un albero. Guardavo da vicino le sue venature e pensavo a come dovesse sentirsi assieme alle altre foglie. La piccola fiammiferaia era la mia storia preferita, perché parlava di morte, di nonne… Poi ho amato i racconti brevi di Salinger, come Per Esmé – con amore e squallore. Era la mia preferita. Non mi piacque granché Il giovane Holden, forse non era il momento giusto per leggerlo. E poi, naturalmente, Jorge Luis Borges. Borges è stato tradotto in bulgaro molto tardi, verso il 1988. Molto tardi, ma in perfetto orario per me e la mia generazione. Avevamo 20, 21 anni e tutto stava succedendo in quel momento. L’idea che si potesse scrivere su tutto, che si potesse mettere di tutto dentro le tue storie, filosofia e via dicendo, è stata una consapevolezza molto importante per me. Le sue storie brevi, soprattutto, come Funes, o della memoria. E poi Màrquez. Sono un grande appassionato di incipit, e quello di Cent’anni di solitudine è il più bello di sempre.

I.G.: Cosa sta accadendo di nuovo, oggi, in letteratura? Quali sono gli esperimenti più interessanti, dal tuo punto di vista?

G.G.: Cosa mi piace della letteratura contemporanea… Sai, il primo romanzo che ho scritto era totalmente folle. Non aveva genere. Era pieno di liste, di storie naturali dei gabinetti, di mosche… A me piacciono i libri che non hanno genere, che non si possono incasellare, liberi di seguire il nostro modo schizofrenico di pensare e di vivere… 

Quando è stato pubblicato Fisica della melanconia sono stato contattato da un accademico bulgaro molto importante, il fisico quantistico Ivan Todorov, fratello del celebre filosofo Cvetan. Buffo, considerando che in fisica, a scuola, andavo malissimo! Pensavo che mi avesse invitato a cena per dirmi che avevo sbagliato tutto nell’interpretazione del principio di indeterminazione di Heisenberg. E invece voleva semplicemente parlarmi di filosofia, di letteratura. Quando la fisica raggiunge alti livelli di astrazione, come in meccanica quantistica, è molto simile alla letteratura, alla poesia. Similitudini e metafore diventano strumenti di conoscenza. Per questo penso che nei romanzi si possano usare idee della meccanica quantistica, delle neuroscienze, tutto. Perché c’è solo un grande campo del sapere… 

Questo amo nei libri contemporanei. Forse è qualcosa di connaturato alla letteratura mitteleuropea. Veniamo tutti dopo Kundera, perciò siamo giustificati all’uso di elementi saggistici nei nostri romanzi, possiamo metterci dentro i nostri pensieri. Non ci preoccupiamo, come fanno gli autori americani, di mantenere sempre alta l’attenzione del lettore, l’andamento drammatico… No! Sento di poter dire al lettore: “Adesso ci fermiamo un attimo, ti voglio raccontare un’altra cosa, continueremo più tardi”. È una tecnica antica della narrazione orale. L’uso delle digressioni, l’andamento labirintico della narrazione… L’ho imparato dai miei nonni, ma anche, come dicevamo, dal Decameron e da Shahrazād. Mi piace pensare ai miei romanzi come a una specie di laboratorio, un campo aperto, che possa riflettere il presente. In fisica esistono sistemi chiusi e sistemi aperti. I sistemi chiusi sono belli, perfetti, auto-sufficienti, ma sono anche molto fragili. Se qualcosa va storto, collassano. I sistemi aperti possono sopravvivere perché possono cambiare e adattarsi alle novità. Mi piace pensare alla letteratura in questo modo: se segui il presente puoi trovarti in una situazione scomoda, puoi sembrare brutto, a volte. Ma non perdi la sensibilità e la capacità di produrre memoria. Credo che i romanzi debbano fare questo: produrre memoria.

I.G.: È questo il vero scopo della letteratura?

G.G.: Sì, penso di sì. Naturalmente il romanzo dovrebbe essere anche leggibile, godibile, dovrebbe catturare la tua attenzione. Ma il mio scopo non è soltanto quello di ammazzare il tuo tempo con la lettura. Voglio includere il lettore dentro il romanzo, parlargli come se fossimo attorno a un tavolo. Pensare al mondo, mostrargli che anche io sono pieno di esitazioni e di dubbi. Che non conosco le risposte. Se vogliamo che questo libro sia un vero libro, allora dobbiamo stare assieme.

I.G.: Non hai ancora citato autori russi. È una scelta? 

G.G.: No, assolutamente. A scuola eravamo obbligati a leggere autori russi. Mi piace molto Čechov, per la sua capacità di raccontare il sublime quotidiano. È molto diverso dagli altri giganti della letteratura russa. Ricordo che quando avevo 16 o 17 anni il mio libro preferito era Un eroe del nostro tempo, di Lermontov. Non si cita più tanto spesso, Lermontov… Era un bel libro, pieno di punti di vista e narratori differenti. Molto moderno. Certo, il personaggio principale era byroniano, il che può aiutare a stimolare l’empatia di un lettore adolescente… E poi mi piace molto la poesia russa, gli autori dell’“epoca d’argento”: l’Achmatova, la Cvetaeva, Blok… soprattutto Esenin. Ma a scuola eravamo obbligati a leggere delle stronzate come La giovane guardia di Fadeev. Romanzi comunisti…

I.G.: Oggi l’auto-fiction va molto di moda. Cosa ne pensi?

G.G.: Forse non sono la persona giusta a cui chiedere… I miei romanzi sono sempre un misto di auto-fiction, memoria e finzione. Ma forse la verità è che non mi importa molto di tutto questo. Una cosa in cui credo è che ci sia una differenza importante fra libri biografici e libri personali. Sono concetti simili, ma non sono la stessa cosa. I critici accusavano Fellini, dicevano che i suoi film erano troppo autobiografici. Mi piace la sua risposta: “Non si tratta di autobiografia. Anche se facessi un film su un pesce sarebbe un film personale”.

I.G.: In Cronorifugio parli di un’Europa in “crisi di futuro”. I nostri Paesi sono sempre più vecchi e l’idea che il futuro sarà migliore del passato è definitivamente tramontata. Adesso, soprattutto per le giovani generazioni, l’idea del futuro crea ansia, fa paura. I cambiamenti climatici, l’incertezza politica… Cosa ne pensi?

G.G.: Ti rispondo con un episodio vero. Mia figlia ha 17 anni. Due mesi fa le ho chiesto: “Dove ti vedi fra 5 o 6 anni?”. Per me era una domanda normalissima. Lei mi ha guardato e mi ha dato una risposta che mi ha colpito: “Pensi davvero che ci saranno 5 o 6 anni?” La sua generazione ha una forte ansia nei confronti del futuro. Il futuro, per loro in modo più drammatico che per altri, sembra cancellato, rimandato. Tutto questo influisce sul loro comportamento. Ti comporti in un modo quando pensi di avere un futuro chiaro, come succedeva nei tempi del comunismo. Allora il futuro era determinato. Ti comporti in un altro modo quando sai che avrai un futuro difficile, incerto, che dovrai lavorare sodo per guadagnartelo, ma sai anche che sei libero di cambiarlo, come ci è successo dopo la caduta del Muro. Ed è ancora tutta un’altra cosa quando sai che a causa dei cambiamenti climatici forse il tuo futuro è già scritto… ancora una volta determinato. Pensiamo a un orizzonte temporale molto diverso, oggi. Prima il futuro era una cosa remota. Si pensava in lassi di tempo più lunghi: 20, 40 anni. Oggi il futuro è vicino: 3 o 4 anni, non di più. A volte penso che sia meglio così. Quando pensi al futuro in modo astratto, remoto, non importa davvero quello che fai oggi. Ora invece ci dobbiamo interessare alle nostre azioni, perché sono strettamente connesse al domani. È un futuro prossimo, un “futuro caldo”, vicino ai nostri corpi e ai corpi dei nostri figli. Un po’ come la “memoria calda” del passato, quella che hanno i testimoni di un evento. Stiamo perdendo la “memoria calda” della Seconda Guerra Mondiale, e allo stesso tempo viviamo un “futuro caldo”. Ecco perché, forse, questo periodo storico è così confuso.

I.G.: Stai lavorando a un nuovo libro. Puoi anticiparmi qualcosa?

G.G.: Normalmente non lo faccio mai. Ma ho appena finito la prima bozza, sto iniziando l’editing, e ti posso dire che sarà un libro folle, senza genere, come al solito. Sarà differente da Cronorifugio, che aveva dietro un grande lavoro di concetto e un’architettura complessa. Il prossimo sarà più personale, più simile a Romanzo naturale. Sarà un libro su mio padre. Sui padri. Sui padri di questa generazione e sui padri morti. Ma sarà un libro leggero!